antica cittadella
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SANTA MARIA A VICO – E’ passato un mese dalla scomparsa di Pietro Carfora, il 17enne di Santa Maria a Vico, morto prematuramente a causa di un brutto male.

La tragedia

Nella notte del 15 dicembre scorso, Pietro, ricoverato al Secondo Policlinico di Napoli, dopo aver lottato come un leone e con tutte le sue forze, alla fine si è dovuto arrendere a questo mostro del nostro tempo.

Le parole commoventi dell'amico

Ad un mese esatto della sua scomparsa, è stata pubblicata sui social una lettera commovente scritta da un amico, anzi un vero e proprio fratello, di Pietro: Angelo Morsellino. Parole dolci, malinconiche e toccanti che sono state riprese anche dall’Istituto Superiore “Majorana Bachelet”, la scuola frequentata da Pietro. Una lettera che ci dona l’immagine intensa di ciò che era Pietro in tutte le sue sfumature

“Ci ho messo un mese a scrivere: a me che non mancano mai le parole, non riuscivo a metterne due, una dietro l’altra, per raccontare di te. Forse perché non volevo ammettere che non c’eri più. Ho scritto e cancellato cento volte perché tutto mi sembrava banale.

E allora non ti descriverò come uno di quei supereroi che aveva accettato la sua malattia e ne aveva fatto una missione. La verità è che tu la tua malattia la odiavi terribilmente. Tu eri un normalissimo ragazzo di 16 anni che amava tanto la vita e che voleva viverla a tutti i costi. E ti sei aggrappato con le unghie e con i denti a questa vita che ti ha regalato troppo poco tempo, che tu hai speso sognando e facendo progetti fino agli ultimi giorni. 

Mi ricordo quando ho saputo del tuo arrivo nel nostro reparto, è stata Emanuela l’infermiera a mandarmi un messaggio: “Quando vieni domenica devi conoscere Pietro, è un ragazzino che è appena arrivato, è bello come il sole”.

Quando sono venuto quella domenica, le infermiere di turno mi hanno suggerito di evitare la tua stanza. “Ha la febbre, non entrare” 

“Mi affaccio solo qualche minuto ed esco” gli ho fatto. 

In quel momento non immaginavo che “qualche minuto” sarebbe diventato un anno intero. A volte penso ancora a quell’avvertimento, “non entrare”, e da egoista mi dico che forse avrei dovuto ascoltare. Se non fossi entrato forse oggi non avrei perso un fratellino. Forse oggi non sarei qui a pregare di sentirti in sogno o con qualche segno da sveglio. 

Tra l’altro ci hanno sempre messo in guardia le psicologhe: “Mantenete le giuste distanze dai pazienti”, ma quando mi sono accorto di non aver rispettato la regola, era troppo tardi. E l’ho capito sentendo tuo padre che parlava con un altro papà del reparto e diceva “Angelo è la medicina di Pietro”.

Quella frase mi gelò, io non mi sentivo una medicina, io volevo soltanto che il mio fratellino guarisse. Perché questa è la verità: eri mio fratello. E non parlo di quando all’inizio ti obbligavo a dirlo scherzando, quando eri incazzato col mondo i primi mesi e mandavi via quasi tutti tranne me.

Ti sarò sempre grato per avermi dato il privilegio di restarti vicino anche le volte che non avevi voglia di parlare, quando restavamo seduti ognuno per fatti suoi e quando mi alzavo mi chiedevi “già te ne vai?” 

Io non lo so perché è capitato che ci siamo scelti come fratelli, non lo so se Lassù qualcuno ha deciso così e perché, ma mi hai fatto sentire come un fratello maggiore ogni volta che mi chiedevi di dirti “la verità”. Eri ossessionato dallo scoprire se era tutto a posto, per finire le cure, per stare bene. 

Mi sentivo tuo fratello ogni volta che dicevi “andiamo in stanza?” E io capivo che volevi fare due chiacchiere per sfogarti o raccontarmi qualche segreto sulla ragazza che ti piaceva, su qualcosa che volevi fare o su qualche paura che avevi.

Quelle chiacchierate mi hanno insegnato tante cose e le custodirò sempre con cura, come quando mi dicesti che preferivi che ci fosse papà vicino a te in reparto perché lui riusciva a nascondere la preoccupazione invece mamma la guardavi negli occhi e pure se diceva che stava bene, capivi che era triste. E non volevi vederla soffrire.

Mi sono sentito tuo fratello quando un giorno eri sul letto arrabbiato, che mi avevano già avvisato prima di entrare, e dopo un quarto d’ora di silenzio io ti chiesi “c’hai paura?” e tu mi guardasti come a dire “ma come ti permetti? Paura a me?” e poi hai ceduto dicendo “sì” con la testa e scoppiando a piangere senza sosta.

Quante volte mi hai fatto sentire impotente, altro che medicina!

Scusa per tutte le bugie che ho dovuto dirti quando mi dicevi che ti fidavi di me e volevi sapere se i medici o i tuoi genitori ti stavano dicendo bugie, ora sai che era per farti stare tranquillo. Tutte le volte che dicevi che non volevi più curarti e io ti giuravo che c’eri quasi, che dovevi resistere solo un altro poco. 

Però voglio raccontare chi eri tu.  Perché chi non ti ha conosciuto deve sapere quanto il tuo cuore era gigantesco.  Pietro era un ragazzo che ha lasciato un segno in tutti quelli che l’hanno conosciuto. Pietro che diceva alle infermiere più anziane, che erano cecate e in due non apparavano a un occhio funzionante. “Aeee l’inps tengo attorno a me” e tutti scoppiavamo a ridere. Pietro che faceva scherzi, battute, organizzava pranzi, giochi.  Pietro che provava compassione per gli altri bambini ricoverati. Pietro che si preoccupava se li vedeva tristi. Pietro che lasciava giocare i più piccoli in camera sua anche quando non aveva voglia di sentire confusione.  Pietro che insegnava agli altri a ingoiare le pillole, a spegnere di nascosto degli infermieri la macchina delle terapie quando suonava l’allarme. Pietro che diceva alla dottoressa di non piangere per lui. Pietro che negli ultimi mesi quando già era senza fiato, ha trasportato anche il suo amico Maurizio sulla bici per non lasciarlo a piedi.  Pietro metteva gli altri avanti a lui, amava un sacco i suoi amici e amava la sua famiglia.  Pietro che una volta ha detto a me “devi pensare un po’ più a te stesso, non devi pensare sempre agli altri”.  Pietro che mi faceva regali, che non mi diceva mai “voglio che vieni” ma che ogni giorno mi chiedeva “a che ora finisci di lavorare?” per farmi capire che mi aspettava. Una volta per non passare da te per 48 ore mi mandasti un messaggio dicendo “mi hai abbandonato su questo reparto”.

Pietro carfora

Eri sempre teatrale, questo dobbiamo ammetterlo. Io non lo so quando passerà il vuoto che hai lasciato, non lo so per quanto tempo ancora ogni giorno dopo il lavoro guarderò le notifiche del telefono per vedere se mi hai scritto come facevi ogni giorno anche solo per sapere cosa avevo mangiato. 

Una volta mentre giravamo in macchina e mi mostravi tutti i paesi delle tue zone, in sottofondo c’era ovviamente la musica di Geolier e dopo che aveva cantato quella frase che dice “Sta fratm che parl tutt e ser cu Dio”, ti girasti e mi chiedesti “tu ci parli cu Dio?” Io ti dissi di sì e ti chiesi se volevi che gli chiedessi qualcosa e tu mi rispondesti “di farmi stare bene”.

Io da quel giorno gliel’ho chiesto tutti i giorni, te lo giuro, e ancora non ho capito perché Lui è rimasto in silenzio. È proprio in questo silenzio enorme di Dio che sei andato via. Due giorni prima di quella maledetta notte mi facesti segno di avvicinarmi al letto e io ti chiesi “che c’è?” e tu con quel poco di voce mi rispondesti “basta, nun c’ha facc chiu.” È stato allora che ho capito che probabilmente era egoistico sperare che tu continuassi a stare con noi, perché meritavi un po’ di pace.  Spero che insieme agli altri siamo riusciti a realizzare tutti i tuoi desideri.  Rosa dopo il tuo funerale ci ha fatto notare che perfino il desiderio dei tuoi ultimi giorni forse è stato esaudito.  Quando eri stanco e volevi un po’ di tregua, avevi supplicato i medici: voglio addormentarmi e svegliarmi direttamente quando sto bene.  È così che sei andato via, dormendo, e voglio pensare che quando ti sei risvegliato eri finalmente in pace, in uno di quei prati enormi di cui parla tua mamma. Fatti sentire Pietrù, trova il modo di farci sapere che sei in mezzo a noi. 

E non come qualche settimana fa che ti chiesi se ti faceva piacere che ti venissi a trovare al cimitero e il custode ha chiuso dieci minuti in anticipo. Lo so che sei stato tu a farmi chiudere da solo là dentro senza sapere come uscire. Si semp tu, non ci sta niente da fare. 

Volevi farmi conoscere i tuoi migliori amici ed ora che ci incontriamo ogni volta che ti veniamo a trovare, ci abbracciamo come se ci conoscessimo da sempre e in quegli abbracci sento pure il tuo.

Ti sento perfino sospirare col tuo “aaaah” ogni volta che diciamo qualche scemità. 

Io quel limite non lo passerò più con nessuno, tant’è che quella sera dopo averti salutato, ho salutato pure il reparto.

E ora che mi sento un vigliacco ad abbandonare gli altri tuoi amici che sono rimasti a lottare in ospedale, ti chiedo di proteggerli tu da lassù. Perché io non ci salirò più, non ce la faccio. 

E come dice “L’ultima poesia”, la canzone che cantavi sempre in macchina o mentre giocavamo a carte, “Alla fine nun è overo ca nui murimm, nuje ce sceglimm a chi purtá cu nuje int a nata vita.”

Alla fine non è vero che moriamo: mentre viviamo, scegliamo chi porteremo con noi quando saremo nell’altra vita. Io spero che tu hai scelto pure a me. Così quando un giorno ci rincontreremo nun ce lasciamm chiu.  Ciao cor mi, ti voglio bene.  Grazie per avermi scelto come fratello”.